Dalle guglie del Duomo a quelle dell’Unicredit tower. Un’intera pagina sul Financial Times per descrivere il «Milan’s makeover», la trasformazione della città che ospita l’Expo. L’autrice e corrispondente del giornale, Rachel Sanderson, racconta la realtà di una città che grazie ai progetti di Porta Nuova e Citylife sta cambiando il suo skyline e si sta dando una nuova identità.
L’architettura, dunque, come metafora di un ritrovato dinamismo. Aprono musei, bar, coffee shop, ristoranti di qualità e scandiscono con la loro attività un processo grazie al quale Milano non è più la Cenerentola del cosiddetto fashion quartet ma riduce le distanze che la separano dai tre grandi centri della moda mondiale ovvero Parigi, Londra e New York. «È bello poter raccontare ai newyorchesi che vengono in Italia che a Milano ci sono tante cose nuove da vedere» dichiara Susy Gariboldi, un’anglo-americana che ha sposato un italiano e vive al nono piano del Bosco Verticale, le torri residenziali disegnate dallo studio Boeri per il complesso di Porta Nuova.
Marciapiedi per bambini
Sta cambiando all’estero la percezione di Milano? Non è più la città «grigia e triste» che la stessa Sanderson dice di aver conosciuto negli anni passati prima di scappare a Roma e poi tornare? «Sembra proprio di sì - risponde Leopoldo Freyrie, milanese e presidente dell’Ordine nazionale degli architetti -. Porta Nuova ha avuto un effetto positivo anche per come si è occupata dello spazio pubblico. Dal Duomo fino a piazza Gae Aulenti è nata una lunghissima passeggiata che i milanesi hanno fatta loro. E l’aria frizzantina che si respira in città è dovuta proprio a queste novità». Che le cose stiano cambiando lo conferma anche Federico Marchetti, amministratore delegato di Yoox che si è fusa di recente con un altro leader dell’e-commerce, la londinese Net-à-porter: «Le sensazioni su Milano sono positive e l’articolo del Ft lo testimonia. Da cittadino vedo anch’io dei miglioramenti, non solo grattacieli ma anche marciapiedi a misura di passeggini per bambini». Per avere però un test più veritiero sull’opinione degli stranieri «bisognerà aspettare qualche mese, inglesi e americani verranno per le sfilate della moda a giugno e a settembre e allora sapremo se questo nuovo giudizio positivo si sarà sedimentato».
Anche per Vittorio Colao, che dal quartier generale di Londra dirige la Vodafone, dopo 30 anni di inerzia «i segni del cambiamento sono visibili, c’è apertura alla modernità, integrazione tra vecchio e nuovo. Mi capita a Milano persino di sbagliare strada e vuol dire che ci sono tante novità». Ma attenzione, avverte il manager: «Bisogna risolvere il problema dei muri sporchi di graffiti, oggi danno un’impressione da città del Terzo Mondo in preda alle gang. Un segnale incoerente con tutto quanto di buono si sta facendo».
Ancora troppi vincoli
Francesco Micheli, imprenditore e presidente del festival di musica Mi-To sottolinea come i mutamenti «siano dovuti a fattori spontanei e a un nostro certo Dna, non certo ad azioni concertate dalla politica locale o nazionale». L’architettura, poi, ha un impatto mediatico forte e non è paragonale all’arte o alla musica contemporanea nella capacità di ridefinire l’immagine di una città. «Piazza Aulenti si è giovata di un approccio esperenziale. Del resto la società si apre e l’offerta di cultura non può rimanere ancorata a vecchi canoni, deve sapersi far ascoltare e far partecipare».
Se la percezione di Milano è in via di mutamento i nostri interlocutori pensano che sia questa l’occasione per far meglio e avanzano qualche consiglio. Per Freyrie l’innovazione urbana non deve restare elitaria ma investire anche periferie e semi-periferie: «Si costruisca social housing ma lo si integri con le funzioni della città». Colao sostiene che una nuova identità è legata anche all’illuminazione durante la notte e qui c’è ancora molto da lavorare. Micheli invita a non illudersi sugli investimenti stranieri. «È vero che è arrivato il fondo sovrano del Qatar a Porta Nuova ma non c’è ancora un vero flusso di capitali. Gli stranieri ancora non investono perché ci sono troppi vincoli». Ancora troppi vincoli.
Articolo originale sul Corriere riportato nel box a sinistra.